Nessun uomo è un’isola. O forse sì.

Moby.

Io torno a casa in nave. In treno e in nave, per l’esattezza. È evidente che per casa intendo quella vera, in Sardegna, e non il mio domicilio bolognese, che pure non mi dispiace affatto. I miei viaggi cominciano nella ridente città felsinea, fanno tappa in quel di Firenze e si concludono a Livorno. Questo per quanto concerne la parte in treno. Da Livorno prendo la nave e, dopo una decina di ore di navigazione che definire interminabili sarebbe un eufemismo, approdo ad Olbia. Che in Greco significa felice, stando alle perle etimologiche dispensate da Wikipedia. E non nego che un po’ felice lo sono, quando rimetto piede sulla terraferma. Perché so che quella terra, oltre che ferma, è sarda, e questo non può che essere motivo di felicità. A fugare l’entusiasmo, semmai, è il pensiero di dover affrontare altre due ore di pullman, il quale farà tappa in ogni paesino delle Baronie e, se necessario, non esiterà a caricare fuori fermata Tzia Peppina che arranca con le buste della spesa.

A questo punto potreste farmi notare che quest’Odissea potrei tranquillamente risparmiarmela, se solo fossi al corrente dell’esistenza di quel prodigio tecnologico che dobbiamo al genio dei fratelli Wright e che risponde al nome di aeroplano. Al che vi risponderei, non senza un filo di soddisfazione, che la mia è una scelta consapevole. Io devo viaggiare con quei fossili del 19esimo secolo perché ho necessità di assaporare il viaggio metro per metro: voglio sentire lo sferragliare della carrozza sui ponti, e vedere le traversine ferroviarie perdersi in un istante, mentre laggiù le colline si muovono impercettibilmente. Voglio osservare i visi delle persone ferme nelle stazioni, ed incrociare i loro sguardi che scrutano un punto indefinito, che in realtà è il tragitto che le porterà a casa, e pensare che per ciascuna di quelle persone c’è qualcuno ad attenderle sulla soglia con un abbraccio. Voglio risalire controcorrente i fiumi di viaggiatori trafelati nei sottopassaggi con il mio trolley sgangherato preso con i punti della Esso quand’ero ancora alle superiori, e correggere la traiettoria quando la ruotina sinistra si inceppa facendolo pericolosamente sbandare. E voglio emozionarmi nel percepire l’odore del mare alla prima boccata d’aria a Livorno, e sorridere ai ragazzi con i loro zaini troppo carichi e il saccopelo colorato. E voglio arrivare al porto quando è già calata la sera e le gru dei rimessaggi incombono sulle navi come sentinelle mute, ed osservare le luci tremolanti della fascia costiera perdersi all’orizzonte, quando il traghetto salpa. E magari appoggiarmi alla ringhiera di prua, mentre il vento mi accarezza la faccia, e pensare ai volti di chi mi aspetta sulla soglia di casa e a come il tempo li stia cambiando, senza intaccare il bene che mi vogliono.

Una cosa è certa: l’aereo non mi concederebbe gli stessi sentimentalismi. L’aereo ti sradica dai luoghi con la stessa rapidità di una macchina del tempo: nel giro di un’ora ti ritrovi catapultato dall’aeroporto a casa (invito chi avesse volato con Meridiana a rileggere la frase nel seguente modo: «Nel giro di un’ora ti ritrovi catapultato dal check-in al tabellone che annuncia il ritardo del tuo volo»), e la scelta più coraggiosa che avrai compiuto durante il viaggio sarà stata scegliere se bere un bicchiere di Coca-Cola o di ACE multivitaminico, previo amorevole invito della hostess. In alternativa, potresti aver sfogliato le pagine di Atmosphere, il lezioso in-flight magazine del Gruppo Meridiana fly, che nove volte su dieci narra di una Sardegna patinata che esiste solo in qualche porticciolo della Costa Smeralda. Perciò, quelle poche volte che mi capita di viaggiare in aereo, chiedo sistematicamente che mi venga assegnato un posto col finestrino, così posso guardare la Terra diventare sempre più piccola e avere l’impressione di consultare Google Maps da una postazione privilegiata. Poi aspetto compostamente l’atterraggio e, se questo avviene senza troppi scossoni, mi unisco al rito nazionalpopolare dell’applauso liberatorio che scatta non appena l’aeromobile tocca terra. Il che è riprovevole, ne sono perfettamente conscio, ma non nego di provare un sottile piacere nel partecipare al sollievo dei passeggeri che gioiscono per aver portato a casa la pelle, ignari del fatto che ci siano molte più possibilità di morire alla guida della propria automobile o per colpa di un banalissimo incidente domestico. Ma è per questo che applaudo, perché l’ignoranza è inebriante, e ti fa dimenticare le cose che pericolose lo sono per davvero. Dopo di che, allo spegnimento del fasten seat belt, contribuisco ad intasare il corridoio dell’aereo benché i portelloni siano ancora chiusi e le manovre di atterraggio ancora in corso, recupero a fatica il bagaglio a mano alloggiato sistematicamente due o tre posti prima del mio e mi avvio lentamente verso l’uscita, che ultimamente è sempre quella posteriore, dove il frastuono delle turbine dell’MD-82 mi priva delle residue capacità uditive (il grosso del danno lo ha fatto l’iPod, negli anni).

Ciò nonostante, la felicità che provo nel toccare terra è assimilabile a quella che provo arrivando in nave, perché nell’aria c’è comunque quell’inconfondibile profumo di lentischio ed elicriso che permea la Sardegna, e che per me è la prova inconfutabile di essere tornato a casa. Poi c’è da aspettare il bagaglio sul nastro trasportatore, pratica che oramai affronto con dignitosa rassegnazione, poiché è scientificamente dimostrato che la tua valigia arriverà sempre tra le ultime, indipendentemente dal tuo colore, genere, età, status sociale, professione, credo religioso e – soprattutto – ordine d’arrivo in prossimità del nastro stesso. A variare semmai è la natura dei bagagli passati in rassegna: si va dal corredo Louis Vuitton prudentemente plastificato pezzo per pezzo, come generalmente sono i legittimi proprietari, al trolley della Esso con la ruota sinistra ballerina che, in un ideale ranking delle tipologie di bagaglio, si piazza appena prima della valigia di cartone legata con lo spago. Perciò capita spesso che nel recuperarlo si faccia incetta di sguardi che oscillano tra la commiserazione e il disgusto, che il sottoscritto provvede a fugare sgommando incurante tra i passeggeri radical chic che affollano il “Costa Smeralda”, e facendo un casino degno di una falciatrice (ricordo infatti che la ruota sinistra tende ad incepparsi).

A completamento di un quadro già di per sé non roseo, c’è il fatto che ad attendermi in aeroporto non c’è alcun autista con il mio nome scritto su un cartello (da tempo ho dispensato la mia famiglia da questo annoso compito), bensì il pullman dell’ARST citato nelle prime righe del post. Pullman che, oltre alle canoniche 73 fermate nei paesini della Gallura e delle Baronie ed ai fuoriprogramma per caricare Tzia Peppina con la spesa, contempla anche una fugace sosta nei lidi mondani dell’aeroporto, la cui brevità ti costringe a “prese al volo” che ricordano molto da vicino le gesta del leggendario ragionier Ugo Fantozzi. Il suddetto pullman, dall’inconfondibile livrea rossoblu (a ricordare i colori sociali del Cagliari Calcio), si approccia infatti alla fermata ad una velocità media di 80 km/h, e il tentativo di salirvi a bordo non ammette repliche, tanto che mi sono persuaso che al volante ci siano Sandra Bullock e Keanu Reeves intenti a girare il seguito di “Speed”. La corsa per riuscire a prendere il pullman al volo causa crisi respiratorie devastanti, tanto che una volta, a bordo, mi è sembrato di scorgere il mio alter ego di ritorno in nave. La cosa sorprendente è che l’autista dispensa invece un’indulgenza quasi commovente nei confronti della celeberrima Tzia Peppina, arrivando persino ad inchiodare nel bel mezzo della Statale pur di farla salire a bordo, ed adducendo la nobile motivazione «Ca issa est betza» («Perché lei è vecchia»). Durante uno dei miei viaggi quest’atteggiamento provocò le rimostranze di un insofferente turista del Nord Italia il quale, in un imprudente afflato polemico, rivolse all’autista le seguenti parole: «Perché non riserva lo stesso trattamento ai turisti?». Risposta lapidaria: «Cussos bisonzat de los bochire» («Quelli bisognerebbe ucciderli»). Il malcapitato ebbe modo di verificare che anche la rinomata ospitalità sarda non è esente da falle, ed io di farmi delle grasse risate a sue spese.

Detto ciò, dopo aver passato in rassegna tutti i mezzi di trasporto a disposizione del pellegrino che volesse recarsi in Terra Sarda, cercherò di spiegare come un uomo dotato di un minimo di buonsenso possa propendere per la nave. La mia motivazione di razionale ha ben poco: in realtà mi sono affezionato all’idea che la Sardegna sia un’isola, e che il modo più naturale per raggiungerla sia via mare, assecondando i tempi di quell’enorme distesa blu che mi separa da lei. E poi c’è una motivazione più intima, che accomuna quel modo di viaggiare al mio modo di vedere i rapporti tra le persone. Un giorno un tale di nome John Donne scrisse che nessun uomo è un’isola, dimenticandosi che gli uomini e le isole hanno diversi aspetti in comune. Specie quando si tratta di colmare le distanze. Quando le persone si avvicinano l’una all’altra, la preoccupazione principale solitamente è scegliere il miglior modo per farlo: velocemente, eludendo le distanze, un po’ come fa l’aereo, oppure lentamente, cercando un approdo sicuro, un po’ come fa la nave. I due approcci hanno i loro pro e contro: piombare con irruenza nelle vite delle persone dimezza i tempi, ma spesso comporta un fastidioso jet lag, e comunque i voli sono passibili di cancellazioni, ritardi, scali, specie quando si viaggia con compagnie low cost. Allo stesso modo, circumnavigando le persone si finisce per trovare un approdo sicuro, ma i tempi si dilatano enormemente, e se durante il viaggio ci si imbatte in una tempesta bisogna sperare che la nave non coli a picco… beh insomma, le persone sono isole. Tutto sta nel trovare il modo migliore per raggiungerle. Io continuo a preferire la nave, perché il mare non mi fa paura. A patto che non gli si metta la “A” davanti. Ma quello è un viaggio che intraprenderò solo quando tra me e la mia “isola” costruiranno un ponte.

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17 risposte a Nessun uomo è un’isola. O forse sì.

  1. Glory11 ha detto:

    Non c’è che dire: l’ultimo paragrafo è splendido 🙂

    • Antoni Conteddu ha detto:

      Grazie Gloria! 🙂 È il paragrafo che ha tenuto “fermo” il post per una settimana, c’è voluto un po’ per metterlo a punto! Solitamente con i miei post funziona così: se sei bravo/a a trattenere il fiato, arrivi all’ultimo paragrafo che trovi un po’ di serietà… perciò non posso che ringraziare chi ha la pazienza di arrivare sino in fondo.

  2. Elena ha detto:

    Bellissimo vien voglia di partire domani:)!PS: provate ad arrivare a Olbia in aereo facendo scalo a Cagliari,l’odissea farà rimpiangere di non essere arrivati a remi!

    • Antoni Conteddu ha detto:

      Ahahah grande Ele, altra grande esperta della tratta Bologna-Livorno, seppur in macchina! Il volo di cui parli, comunque, non solo fa rimpiangere di non essere arrivati a remi, ma persino a nuoto! 🙂

  3. Cess ha detto:

    Sei una carogna, non si possono scriver queste cose a un mese dalla partenza!! Dovrò passare le prossime settimane con il cilicio ben stretto per non pensare a casa,al cisto, e alla salsedine sarda. Non sarà certo il lentischio delle siepi alla Nuova Darsena a poter intaccare la sofferena da saudade Sarda. A rincarare il tutto ci sarà pure la vostra assenza in qui, l’autonomia per la fase “amici lontani” è finita credo nel momento in cui le portiere della Serie1 si son chiuse…Per completezza ci sarebbe da sottolineare come il viaggio di ritorno venga fatto rigorosamente in aereo per evitare al nostro cuore di soffrire nel vedere le distanze dilatarsi e sentire la propria culla ancestrale allontanarsi e farsi piccola lentamente dal ponte 8 della Wonder. Come una sveltina in un cesso del bar insomma, da fare per dovere e da dimenticarsi quanto più in fretta possibile..

    • Antoni Conteddu ha detto:

      Hai sollevato una questione giustissima, mio caro: la non reversibilità del viaggio in nave! Farlo per tornare al Nord è assolutamente deleterio! Si potrebbe scrivere un intero post a proposito… detto questo: spero di non incontrarti nel bagno di un bar. Ahahah! 🙂

  4. morella ha detto:

    .. geniale e bellissimo .. come sempre .. ma stavolta anche di più! 🙂

  5. Elena ha detto:

    ahahah Cess è vero lo strazio da ritorno in nave è un grande classico, quando parcheggi nella metà della stazione marittima che da verso il “continente” ormai sai già di essere un uomo morto:D!

    • Cess ha detto:

      E si…sei nella posizione del non ritorno ormai,incolonnata…tutti che spingono da dietro come bufali nella savana,le voci sono “continentali” ma colori e tramonto sono sardi..ok…smetto che mi sta venendo il magone!!! Devo superare questa fase….quando vieni ad alleviare la mi sofferenza…niente dolce per tentarti,promesso.

  6. Anto ha detto:

    Anto direi finalmente! Se non ti conoscessi potrei anche innamorarmi, ma per (mia e tua) fortuna oramai abbiamo passato il pericolo! Sarai quasi l’unico che riesce a rendere quasi poeticamente l’immagine di zia peppina, unica eccezione che conferma la regola (quella per la quale gli autisti si fermano solo se, oltre ad esser del gentil sesso, induci in loro un’idea di qualcosa che poi non avranno; idea che capisci solo quando stai salendo sul mezzo, ricordando con lo sguardo all’autista che lui guida un pullman, non uno studio radiologico!); e scusa la mancanza della T davanti a ZIA, dopo una giornata come questa sono per l’evoluzione selvaggia della lingua.
    Oltre alle tue sensazioni, tutte condivise peraltro, questo post mi ricorda l’impatto violento con la salsedine che avverti all’arrivo dopo una notte passata in coperta, e che ti da la fastidiosa sensazione di sentirti un tutt’uno con i vestiti che hai addosso. Col risultato che vorresti spogliarti d’un colpo, e lì devi stare attento perché diventeresti preda di ammiccamenti che, francamente, dopo quasi un giorno di viaggio tra le pulci del treno e la salsedine di mare diventano imbarazzanti!
    Bravo, vorrei dirti di spicciarti la prossima volta, ma se questo è il risultato vedremo di essere pazienti!

    Cess, il commento poteva essere azzeccato, ma quel paragone non l’hai saputo bloccare? Per stare sulla tua linea direi che ti è scappato un po’ come la pipì!
    Un bacio!

    • Antoni Conteddu ha detto:

      Grandissima Anto! Peccato per l’innamoramento… speravo di poterti circuire con il potere delle parole ma temo che dovrò desistere! Comunque hai ragione, avevo dimenticato di quanto gli autisti fossero “assutti”… in compenso mi accodo al discorso sulle condizioni igieniche del post-viaggio-in-nave: confesso di aver dormito persino nella vasca delle palline per bambini, dove i fanciulli sguazzano con i loro piedini pestilenziali e i pannolini pericolosamente allentati. In compenso ho preso sonno subito! 🙂

  7. denise ha detto:

    Complimenti!!! mi piace veramente tanto il tuo blog, posso avere anche io il premio “lettrice affezionata”? Ho anche una corrispondente che mi avverte non appena c’è un nuovo post :-))

    • Antoni Conteddu ha detto:

      Grazie Deny! La palma di lettrice affezionata te la meriti eccome! Dopo aver condiviso il link, credo che la sradicherò dalla Strada Nuova e te la porterò direttamente su un piatto d’argento! 🙂

  8. Checco ha detto:

    caz bello il posto qualcuno mi ha segnalato di leggerlo,non posso che aggiungermi ai fan del viaggio in nave visto che ho qualche esperienza a riguardo! non so se anche io mi posso agganciare alla discussione visto che non sono un esperto del viaggio Livorno-Olbia ma sono comunque un pendolare della tratta Cagliari-Siniscola e capisco le ore traumatiche passate a bordo del pullman che passa in tutti i paesini,della compagnia Turmotravel e non Arst che,causa inflazione e aumento dei carburanti, ha deciso di aumentare il prezzo da 15 a 15,50 euro e sistematicamente ti becchi la frase dell’autista una volta pagato il biglietto con 20 euro:”ma minutu non ne tenese?”ed io:”No” e lui:”a bos pranghere sezzisi…”

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